Racconto di Antonella Gioia (presidente Ipasvi Piacenza), premiato al Premio Letterario 2013 di Socrem
La mosca si sfregava le zampe e si spostava di continuo.
Sugli occhi. Ai lati del naso. Sul mento. Sulla fronte. Sulla cicatrice che attraversava la guancia a zig zag. Ma fu soltanto quando si appoggiò sulla bocca semiaperta di Ginetto che Aurora cominciò a urlare.
“Spostati! Vattene! Non ti voglio qui. Via! Via! Via! Sparisci!”. Disse queste parole senza prendere fiato, di corsa e poi scoppiò a piangere a dirotto.
Allungò la mano per sfiorare la guancia di Ginetto, ma all’ultimo istante le mancò il coraggio di farlo. La cicatrice livida si vedeva ancora. Sembrava un sorriso. Un brutto sorriso, storto e cattivo. Dopo tutto, l’impresario doveva ancora ultimare il suo lavoro. Era così piccolo, suo fratello. Il suo gemello. Il suo alter ego. Il suo compagno di giochi e di vita.
E ora si trovava lì, immobile. Esattamente come prima. Nella bara foderata di bianco. Nessuno l’aveva resuscitato. E lei non aveva il coraggio di toccarlo.
Era la prima volta che Aurora si trovava davanti alla morte e non sapeva come affrontarla.
Ma già la odiava, perché rendeva suo fratello diverso. Le pareva che fosse già cambiato. Che non fosse più suo. E questo le faceva paura.
La voce dell’impresario delle pompe funebri, la fece sobbalzare.
“Non dovresti essere qui, Aurora. Non ho ancora finito. Ti prego torna in cucina a fare compagnia a tuo padre intanto che io finisco il mio lavoro.”
Il tono era dolce ma anche deciso e Aurora scorse nella sua mano un barattolo contenente una pasta densa e leggermente colorata, che iniziò a spalmare sul viso di Ginetto. A piccoli passi, lei si avviò a malincuore fuori dal salotto. Quell’impercettibile puzza di muffa che faceva starnutire Aurora e le provocava un lieve affanno. E ora, all’odore noto – anche se sgradevole – del salotto si era unito qualcos’altro. Un sentore strano, mai avvertito prima. Lei pensava che quell’odore provenisse da suo fratello, e non le piaceva.
Non era il suo solito profumo, che sapeva di sano sudore e di frutta. No. Era un odore malevolo. Era l’odore della morte.
La tragedia si era consumata quella mattina. Suo padre guidava il trattore e Ginetto gli stava al fianco, come al solito. Ma un dislivello nel terreno aveva fatto ribaltare il mezzo, schiacciando suo fratello.
Giulia, la madre, alla notizia riportata da un bracciante, aveva perso i sensi ed era stata ricoverata in ospedale, accompagnata da zia Tilde. Suo padre, inebetito dal dolore, non riusciva più a parlare né a connettere. Se ne stava seduto in cucina, con una sigaretta tra le dita, la canottiera macchiata del sangue di suo figlio e gli occhi fissi nel vuoto, colmi di orrore e di incredulità.
Aurora non sapeva che fare.
La mamma non c’era, stava male. Il papà non pareva più lui, ma uno sconosciuto che avesse preso le sue sembianze. Il suo amato gemello giaceva senza vita sul divano.
Ovunque regnava una grande agitazione. Mancava qualcuno che coordinasse il tutto. Un adulto che si assumesse la responsabilità di fare ciò che andava fatto. Anche Maria, la signora che dava una mano a sua madre in casa, quel giorno non c’era perché si era recata al mercato. E così, una volta arrivato l’impresario delle pompe funebri, aveva preso in mano lui le redini della situazione.
Uomo accorto e abituato suo malgrado ad avere a che fare con il dolore, Teodoro capì al volo che doveva tenere impegnata la piccola Aurora, prima che cadesse in preda allo shock.
“Aurora, cara, vai a prendere i vestitini per Gino, quelli che gli piacevano di più, e portameli. Corri, tesoro, io ti aspetto qui! ”
Le disse con gentilezza, mentre con dita sicure tastava il corpicino senza vita del bambino. Aveva subito diverse fratture interne, come stabilito dal medico, e lo schiacciamento del cranio. Una brutta ferita gli deturpava il viso. Lui avrebbe dovuto cercare di fare del suo meglio per rendere di nuovo presentabile Gino. Provava un profondo rispetto per il suo lavoro e per i corpi che preparava all’ultimo viaggio. Rispetto misto a timore. E provava anche una pena infinita per quella giovane vita stroncata, e per il dolore che si sarebbe riversato per anni sulla sua famiglia, mutandone i destini.
Aurora scelse con cura i vestiti del fratellino. Poi, si era seduta di fianco a suo padre, nella calura di agosto della piccola cucina piastrellata di giallo, prendendogli una mano e stringendogliela.
Lui non sembrava essersene accorto. Ma poi, piano piano, aveva ricambiato la stretta. E iniziato a biascicare la sua litania. Parole terribili, che avrebbero perseguitato la famiglia per sempre: “Che cosa ho fatto? Dio mio, che cosa ho fatto? Perché non è toccato a me?”.
Fino a quando Aurora non si era alzata, sentendo Teodoro uscire, per andare a vedere il fratello. Nell’assurda speranza di trovarlo vivo e sorridente.
La mosca si sfregava le zampe e si muoveva di continuo. Spostandosi sul tavolo, sulla matita, sul block notes, sulle pagine del libro di Bio-etica. Aurora mosse stancamente la mano, per scacciarla, tornando bruscamente al presente.
Lei odiava le mosche.
E odiava la morte.
Solo ora, a distanza di tanti anni, arrivava a capire i motivi reali e profondi che l’avevano spinta a diventare un’infermiera specializzata.
Tutto si riconduceva a Ginetto e alla sua morte, mai superata del tutto.
Lei, studiando sempre di più e specializzandosi sempre di più, sperava di tenere lontana l’ombra malefica della morte. Di renderle il compito più difficile.
Con un sospiro chiuse il libro e si alzò dal tavolo della cucina. Spense la luce e si avviò nella camera dei suoi figli. Ne udì il respiro pesante e rassicurante allo stesso tempo.
Adagio si coricò nel suo letto, attenta a non svegliare il marito.
Tutto era a posto. Tutto era sotto controllo. Ora poteva chiudere gli occhi e dormire.